Sentenza n. 198 del 2023

SENTENZA N. 198

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, in composizione monocratica, nel procedimento vertente tra E. S. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 30 gennaio 2023, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di costituzione di E. S. e dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 settembre 2023 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi;

uditi gli avvocati Piero Guido Alpa e Maria Paola Gentili per E. S., Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 20 settembre 2023.

Ritenuto in fatto

1.− Con ordinanza del 30 gennaio 2023, iscritta al n. 19 reg. ord. 2023, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114 «nella parte in cui, nell’attribuire al personale trasferito ex lege dalla SSEF alla SNA lo stato giuridico di professore universitario e nel demandare alla fonte regolamentare la determinazione del trattamento economico, non ha previsto la neutralizzazione, ai fini del trattamento previdenziale, della minore retribuzione spettante al personale trasferito o un altro meccanismo di tutela del trattamento pensionistico spettanti al predetto personale».

Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere del ricorso depositato l’11 novembre 2021 da un docente della Scuola nazionale dell’amministrazione (SNA), «titolare di pensione di anzianità liquidata con il sistema retributivo a decorrere dal 31.12.2016», per ottenere dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) il ricalcolo e la riliquidazione del trattamento pensionistico in esito alla neutralizzazione, «ai fini della determinazione della retribuzione pensionabile da prendere in considerazione per il calcolo della quota retributiva della pensione, [delle] minori retribuzioni percepite […] nel corso dell’ultimo anno di lavoro subordinato» (2016) o nel diverso periodo ritenuto di giustizia.

L’ordinanza di rimessione illustra che la pretesa della parte ricorrente è fondata sull’applicazione analogica del principio di neutralizzazione dei «periodi contributivi successivi alla soglia minima di anzianità contributiva prevista per legge, ove comportanti un trattamento pensionistico deteriore». In particolare, il ricorrente invoca la neutralizzazione delle minori retribuzioni percepite «nell’ultimo quinquennio» precedente la data di maturazione del diritto alla pensione, affermato più volte nella giurisprudenza costituzionale (si cita la sentenza n. 264 del 1994 in relazione all’art. 3, comma 8, della legge 29 maggio 1982, n. 297, recante «Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica»), di cui ricorrerebbero i requisiti «costituiti dalla percezione della minore retribuzione nell’ultimo quinquennio di contribuzione, dall’effetto deflattivo sul trattamento pensionistico, dalla non necessarietà del periodo di retribuzione di cui si chiede la neutralizzazione ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima».

In via subordinata, il pensionato ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, per violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 38, primo e secondo comma, Cost. «nella parte in cui non ha previsto che la rideterminazione del trattamento economico dei docenti ordinari a esaurimento della SNA non avesse effetti sulle modalità di calcolo della media pensionabile utile ai fini del calcolo della quota retributiva della pensione degli interessati».

La sezione giurisdizionale espone in punto di fatto che il ricorrente:

− aveva maturato periodi di anzianità contributiva per l’attività di magistrato ordinario dal 1979 al 2001, di professore ordinario presso la Scuola superiore dell’economia e delle finanze (SSEF) dal 2001 al 2014, e dal 2014 al 2016, di docente presso la SNA;

− risultava iscritto all’INPS-gestione dipendenti pubblici dalla data anteriore del 1° novembre 1971 in ragione del riscatto del corso di laurea e del servizio militare;

− nel transito dalla magistratura alla docenza SSEF, si era avvalso dell’opzione di cui all’art. 3, comma 3, del decreto del Ministro delle finanze 28 settembre 2000, n. 301 (Regolamento recante norme per il riordino della Scuola superiore dell’economia e delle finanze) che consentiva la conservazione del trattamento economico della posizione di provenienza (magistratura);

− a seguito della soppressione della SSEF, disposta dal suddetto art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, era stato trasferito ex lege nei ruoli della SNA come docente stabile e di ruolo con «impegno a tempo definito»;

− aveva conseguentemente subìto, in applicazione del comma 4 del citato art. 21 e dell’art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 25 novembre 2015, n. 202, recante «Regolamento recante determinazione del trattamento economico dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione (SNA)», la decurtazione della retribuzione da euro 263.131,06 lordi annui nel 2015 ad euro 130.090,43 lordi annui nel 2016;

− aveva presentato domanda di collocamento in quiescenza secondo la disciplina pensionistica anteriore all’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214 (cosiddetta “legge Fornero”), secondo quanto accordato al personale in soprannumero della pubblica amministrazione dall’art. 2, comma 11, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135;

− la domanda di prepensionamento era stata rigettata da parte dell’amministrazione datrice di lavoro con determinazione annullata con sentenza del giudice amministrativo (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, sentenza 10 gennaio 2017, n. 301) che aveva anche accertato il «diritto al trattamento di quiescenza» e «la maturazione del requisito dell’anzianità contributiva al 31.12.2015»;

− diversamente l’INPS aveva fatto decorrere il trattamento pensionistico dal 31 dicembre 2016;

− aveva riscontrato nel provvedimento di liquidazione della pensione, tra l’altro, la mancata neutralizzazione ai fini pensionistici delle minori retribuzioni percepite nel 2016, nonostante la maturazione del requisito di anzianità contributiva nell’anno antecedente.

L’ordinanza di rimessione si sofferma poi sul meccanismo di calcolo della pensione «anticipata (ex anzianità)» liquidata al docente.

In primo luogo, il giudice a quo chiarisce che il trattamento pensionistico era stato interamente quantificato con il sistema retributivo, in quanto il docente aveva maturato un’anzianità contributiva maggiore di 18 anni di servizio al 31 dicembre 1995 e in quanto si era avvalso della clausola di salvaguardia prevista «dall’articolo 21, comma 3», del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.

In secondo luogo, il calcolo del dovuto era la risultante di una «quota A», computata in relazione alla retribuzione spettante all’atto di collocamento a riposo e all’anzianità maturata al 31 dicembre 1992 − in applicazione degli artt. 13, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato) − e di una «quota B», relativa all’anzianità di servizio successiva al 1993, calcolata sulla base della retribuzione riferita agli ultimi dieci anni di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione − in applicazione degli artt. 7, comma 2, e 13, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 503 del 1992.

1.1.− Il rimettente fa antecedere all’illustrazione dei presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale due considerazioni preliminari.

1.2.− Anzitutto, l’ordinanza rammenta che questa Corte si è già pronunciata su alcune questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in relazione al trattamento previdenziale dei docenti SNA, sollevate dal Consiglio di Stato in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., dichiarandole inammissibili con la sentenza n. 241 del 2019. La decisione in rito non impedirebbe una nuova riproposizione dei dubbi di legittimità costituzionale.

1.3.− Inoltre, il giudice a quo esclude la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata per una duplice ragione.

Per un verso, non sarebbe consentita l’applicazione analogica dei princìpi espressi dalla giurisprudenza costituzionale in tema di neutralizzazione delle ultime retribuzioni di minor importo in quanto relativi a norme afferenti ad un sistema previdenziale (Assicurazione generale obbligatoria, AGO) diverso da quello (Gestione Stato) relativo alla fattispecie al suo esame (si citano le sentenze n. 224 del 2022 relativa ai lavoratori marittimi; n. 173 del 2018 relativa i lavoratori autonomi; n. 264 del 1994 relativa ai lavoratori subordinati).

Per altro verso, secondo la citata disciplina previdenziale applicabile, nella determinazione tanto della «quota A» quanto della «quota B» si prende come base di calcolo l’ultima retribuzione percepita (e, dunque, nella specie quella del 2016), sicché non sarebbe possibile sostituirla con quella dell’anno precedente la data di cessazione dell’attività lavorativa (2015).

1.4.− In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, la Corte rimettente espone che la domanda del ricorrente di ricalcolo della pensione sulla base della invocata neutralizzazione della minore retribuzione percepita nell’ultimo anno di attività lavorativa (2016) non possa essere definita indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione.

1.5.− Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo assume che l’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, sia contrario «ai princìpi di legittimo affidamento in materia previdenziale di cui all’articolo 2 Cost., di razionalità di cui all’articolo 3 della Costituzione, oltre che degli articoli 36, comma primo, e 38, secondo comma, Cost., che, rispettivamente, prevedono il principio di proporzionalità tra trattamento pensionistico e quantità e qualità di lavoro prestato durante il servizio attivo (art. 36, comma primo, Cost.) e il principio di adeguatezza delle prestazioni previdenziali (art. 38, secondo comma, Cost.)».

Il legislatore, infatti, quando con la predetta disposizione ha esteso lo stato giuridico ed economico dei professori e ricercatori universitari ai docenti ordinari ad esaurimento della SSEF, trasferiti ex lege alla SNA, e ha demandato alla fonte regolamentare la rideterminazione del trattamento economico, «non ha valutato gli effetti della predetta modifica sul trattamento di quiescenza del personale che, in quanto proveniente da altri settori del pubblico impiego, aveva un diverso e più elevato trattamento economico».

2.– Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale che ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, negli stessi termini auspicati dal rimettente.

La parte, dopo aver ricostruito i fatti, ha illustrato, condiviso e sostenuto le argomentazioni spese dall’ordinanza di rimessione.

In particolare, in ordine alla fondatezza delle questioni ha rimarcato che il legislatore, laddove con la disposizione censurata ha previsto l’estensione dello stato giuridico ed economico dei professori e ricercatori universitari ai docenti ordinari della SSEF ad esaurimento trasferiti alla SNA, non avrebbe valutato gli effetti della modifica sul loro trattamento di quiescenza.

3.– Si è altresì costituito in giudizio l’INPS, parte resistente nel giudizio a quo, chiedendo che sia dichiarata l’inammissibilità o, comunque, la non fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

3.1.– In via preliminare, l’istituto previdenziale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.

In particolare, il giudice a quo non avrebbe correttamente inquadrato gli «effetti negativi della norma censurata […] nella specifica e concreta situazione» del ricorrente.

Infatti, diversamente da quanto sostenuto dal rimettente, il pregiudizio nel calcolo della pensione per la necessità di tener conto della retribuzione ridotta del 2016, anziché di quella più cospicua del 2015, non dipenderebbe dalla norma censurata, bensì dalla circostanza fattuale che l’amministrazione non aveva acconsentito alla cessazione dal servizio in tale anno, sicché il docente aveva dovuto continuare a lavorare nell’anno successivo.

Chiarisce in fatto l’Istituto che − come riscontrabile nel provvedimento di liquidazione depositato nel giudizio costituzionale − al lavoratore è stata riconosciuta la pensione «anticipata» di cui al d.l. n. 201 del 2011, come convertito, in quanto solo il 31 dicembre 2016 aveva maturato i necessari requisiti (anagrafico di 63 anni e contributivo di 42 anni e 10 mesi di servizio). Il docente, invece, non si era potuto giovare della possibilità, prevista dall’art. 2, comma 11, lettera a), del d.l. n. 95 del 2012, come convertito, per il personale soprannumerario dell’amministrazione, di accedere alla pensione nel 2015 con soli 40 anni di contribuzione secondo il «regime ante riforma Fornero»: l’ente datore di lavoro aveva disconosciuto, infatti, il presupposto della condizione di soprannumerarietà, riconosciuta poi dal giudice amministrativo, ma solo nel 2017.

Dunque, secondo l’INPS, ove il ricorrente avesse avuto accesso al richiesto pensionamento anticipato avrebbe cessato il servizio nel dicembre 2015 e la pensione sarebbe stata calcolata sulla base della corrispondente retribuzione. La norma censurata in tale ipotesi non avrebbe trovato applicazione.

3.2.– Nel merito l’INPS ha sostenuto che la norma censurata non soffre della illegittimità costituzionale prospettata, per più ragioni.

3.2.1.– Anzitutto, l’Istituto evidenzia il contesto in cui il trattamento di quiescenza si inserisce.

La modifica della disciplina del trattamento retributivo dei docenti transitati dalla SSEF alla SNA ha superato il vaglio di legittimità costituzionale con la sentenza n. 241 del 2019 in quanto «sorretta dall’adeguata e ragionevole giustificazione di non creare sperequazioni retributive tra i docenti della stessa SNA a parità di funzioni esercitate». La razionalità della riduzione della retribuzione giustificherebbe, allora, anche la produzione di effetti conseguenziali sul trattamento previdenziale del lavoratore.

Inoltre, sarebbe fuori luogo il richiamo al principio di neutralizzazione della minor contribuzione affermato da questa Corte per i dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria in quanto questo è riconosciuto alla condizione che il requisito minimo venga raggiunto senza l’apporto dei periodi neutralizzati. Al contrario, nella fattispecie all’esame del giudice rimettente, il requisito contributivo di 42 anni e 10 mesi sarebbe raggiunto solo con l’annualità (2016) che si vorrebbe neutralizzare.

3.2.2.– Quanto alle censure, la parte esclude, in primo luogo, la lesione dell’affidamento: il rapporto assicurativo è un rapporto di durata che è naturalmente inciso dalle oscillazioni retributive.

In secondo luogo, l’INPS sostiene l’insussistenza della violazione del «principio di uguaglianza» sia rispetto ai dipendenti privati sia rispetto agli altri dipendenti pubblici che non subiscono la diminuzione retributiva nell’ultimo anno di servizio.

In terzo luogo, non vi sarebbe contrasto con il principio di proporzionalità tra trattamento pensionistico e quantità e qualità del lavoro prestato poiché la modifica normativa ha omogeneizzato le retribuzioni tra i docenti della SNA, per portare il sistema a razionalità ed evitare discriminazioni.

In ultimo, l’Istituto nega che sia vulnerato il principio di adeguatezza delle prestazioni previdenziali in quanto il riconosciuto trattamento pensionistico risulterebbe largamente idoneo ad assicurare, non solo il soddisfacimento dei bisogni primari, ma anche l’adeguatezza alla condizione sociale del titolare.

D’altronde, la parte ricorda che con la sentenza n. 241 del 2019 questa Corte ha evidenziato che la scelta di attribuire ai docenti in parola il trattamento economico dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno «è indicativa anche della volontà di tenere in giusto conto, nei termini e nei limiti del possibile, il pregresso, più elevato, trattamento retributivo goduto dai docenti ex SSEF».

4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, di non fondatezza delle sollevate questioni.

4.1.– In via preliminare, l’interveniente ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza posto che la disposizione censurata si limiterebbe a disciplinare lo status giuridico ed economico dei docenti della SNA senza nulla disporre sul loro trattamento pensionistico, piuttosto disciplinato dalla normativa generale sulle pensioni dei dipendenti pubblici. Le norme censurate non sarebbero, dunque, conferenti rispetto ai parametri costituzionali evocati.

4.2.– L’Avvocatura dello Stato fa antecedere alla difesa nel merito l’inquadramento normativo delle questioni e, in particolare, espone che:

− la SSEF venne istituita dalla legge 29 aprile 1957, n. 310 (Istituzione della Scuola centrale tributaria “Ezio Vanoni”) con lo scopo di svolgere «corsi di istruzione teorico-pratica per il personale civile dell’Amministrazione finanziaria» (art. 1, comma 2);

− l’art. 5, comma 3, della legge 29 ottobre 1991, n. 358 (Norme per la ristrutturazione del Ministero delle finanze) previde che il corpo docenti fosse nominato tra professori universitari di ruolo, magistrati ordinari e amministrativi, avvocati dello Stato e dipendenti civili dello Stato, appositamente collocati nella posizione di fuori ruolo con trattamento economico relativo alla loro qualifica e con diritto a percepire le indennità erogate dalle amministrazioni di appartenenza;

− i regolamenti di riforma della scuola, di cui ai decreti del Ministro delle finanze n. 301 del 2000, emanati secondo quanto previsto dall’art. 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287 (Riordino della Scuola superiore della pubblica amministrazione e riqualificazione del personale delle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), istituirono una categoria di docenti a tempo indeterminato e una categoria di docenti incaricati temporaneamente;

− (anche) ai professori incaricati non temporaneamente, che fossero stati «inquadrati a seguito di opzione, nel ruolo di cui all’articolo 5, comma 5» del d.m. n. 301 del 2000, fu riconosciuto il diritto al trattamento economico fondamentale di provenienza;

− di seguito, i professori ordinari inquadrati in tale ruolo per effetto dell’art. 4-septies, comma 2, del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97 (Disposizioni urgenti in materia di monitoraggio e trasparenza dei meccanismi di allocazione della spesa pubblica, nonché in materia fiscale e di proroga di termini), convertito, con modificazioni, nella legge 2 agosto 2008, n. 129, furono inseriti, in uno con i ricercatori della SSEF in servizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, in appositi ruoli ad esaurimento, con riconoscimento del diritto di opzione per il rientro nelle amministrazioni di provenienza;

− con l’art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, fu, infine, soppressa la SSEF e disposto il trasferimento alla SNA dei docenti e ricercatori inquadrati nel suddetto ruolo ad esaurimento;

− a tali docenti «è applicato lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari» (art. 21, comma 4, del medesimo d.l. n. 90 del 2014, come convertito);

− questa Corte, con la sentenza n. 241 del 2019, ha escluso l’irragionevolezza dell’unificazione dello status giuridico dei docenti e ha ritenuto non contraria all’art. 36 Cost. la conseguente riduzione della retribuzione originaria.

4.3.– Tanto premesso, l’interveniente reputa non fondati i dubbi di legittimità costituzionale.

In primo luogo, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che non vi sarebbe rigido parallelismo tra la garanzia dell’art. 38 Cost. e quella di cui all’art. 36 Cost., tenuto conto che la prima è agganciata alla seconda «non in modo indefettibile e strettamente proporzionale» (si citano le sentenze n. 250 del 2017 e n. 173 del 2016 di questa Corte).

Le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni ricadrebbero nella discrezionalità del legislatore, che nella specie risulterebbe ragionevolmente esercitata in quanto la ratio della disposizione censurata sta nel rendere omogeneo il trattamento retributivo dei docenti SNA. Ciò a maggior ragione, in relazione al trattamento previdenziale, toccato dall’intervento riduttivo della retribuzione solo in via indiretta e in un momento in cui il trattamento pensionistico non è ancora maturato.

Ancora, risulterebbe rispettato il limite di salvaguardia della «garanzia delle esigenze minime di protezione della persona» stabilito dall’art. 38 Cost. (sono citate le sentenze n. 91 del 2004 e n. 434 del 2002), atteso che la prestazione pensionistica riconosciuta ai docenti della SNA è quella prevista a favore dei professori universitari di prima fascia.

L’Avvocatura dello Stato confuta, poi, la violazione dell’art. 2 Cost. per lesione del legittimo affidamento. La modifica della disciplina del rapporto di durata non incorrerebbe in irragionevolezza in quanto è stata dettata per eliminare disparità retributive tra i docenti della SNA.

Neppure sarebbe vulnerato il «principio di uguaglianza». Il principio di neutralizzazione è, infatti, riconosciuto in relazione al calcolo della pensione degli iscritti all’AGO, cui si applica un meccanismo di calcolo differente rispetto a quello applicato per i dipendenti pubblici.

Al contrario, ad avviso dell’interveniente, il principio di uguaglianza sarebbe vulnerato se il calcolo della pensione dei docenti della SNA, provenienti dalla SSEF, avvenisse, a differenza di quanto previsto per tutti gli altri dipendenti pubblici, sulla base di una retribuzione diversa da quella percepita alla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Infine, non vi sarebbe contrasto con il principio di proporzionalità tra trattamento pensionistico e quantità e qualità del lavoro prestato e con il principio di adeguatezza della prestazione previdenziale: la disposizione censurata non prevederebbe specifiche modalità di calcolo del trattamento pensionistico dei docenti ordinari della SSEF ad esaurimento trasferiti alla SNA, il quale, piuttosto, è regolato dalle norme generali sui trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici che tengono conto della complessiva anzianità di servizio e delle retribuzioni percepite.

5.− In vista dell’udienza pubblica, l’interveniente ha depositato memoria in cui, oltre a ribadire le difese già spiegate, ha dedotto aggiuntivamente che il Consiglio di Stato, sezione quarta, con sentenza 2 settembre 2022, n. 7668, ha riformato la richiamata decisione del TAR Lazio n. 301 del 2017, disconoscendo che il docente fosse «dipendente soprannumerario avente diritto al prepensionamento».

L’Avvocatura dello Stato ha depositato nel giudizio costituzionale la menzionata sentenza.

6.− Con memoria depositata il 25 agosto 2023, la parte privata ha replicato alle difese dell’INPS e del Presidente del Consiglio dei ministri e ha contestato la rilevanza della decisione del Consiglio di Stato ai fini del giudizio costituzionale in quanto non tenuta in conto dalla ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

1.− La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, in composizione monocratica, dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito.

La disposizione censurata disciplina il regime giuridico ed economico dei docenti ordinari e dei ricercatori «dei ruoli a esaurimento» della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, in esito alla soppressione di tale ente di formazione, disposta dal comma 1 dello stesso art. 21, e al loro trasferimento alla Scuola nazionale dell’amministrazione.

Ne è censurato il combinato disposto della norma che applica a tale personale lo stato giuridico dei professori o dei ricercatori universitari e della norma che demanda la rideterminazione del trattamento economico ad apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, «sulla base [di quello] spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità» in relazione alla mancata disciplina delle ricadute pregiudizievoli sul trattamento previdenziale. Si denuncia, in particolare, il difetto di previsione della «neutralizzazione, ai fini del trattamento previdenziale, della minore retribuzione spettante al personale trasferito o un altro meccanismo di tutela del trattamento pensionistico spettant[e] al predetto personale».

Il rimettente solleva le questioni nel giudizio promosso da un professore della soppressa SSEF, in quiescenza dal 31 dicembre 2016, per ottenere il riconteggio della pensione liquidata con il sistema retributivo, sulla base dell’assunto che l’INPS aveva erroneamente posto a base di calcolo l’ultima retribuzione percepita nel 2016, dimezzata rispetto all’anno precedente in virtù della disposizione censurata e del decreto attuativo, anziché la retribuzione piena del 2015, per come consentirebbe l’invocato principio di neutralizzazione.

1.1.− I parametri evocati a tutela della prestazione pensionistica sarebbero vulnerati in quanto il legislatore, nel disporre la riduzione stipendiale, «non [avrebbe] valutato [i conseguenti] effetti […] sul trattamento di quiescenza del personale che, in quanto proveniente da altri settori del pubblico impiego, aveva un diverso e più elevato trattamento economico».

Della contestata perdita economica il giudice a quo dà conto, evidenziando che la legislazione previdenziale applicabile alla fattispecie individua la retribuzione pensionabile sulla scorta di quella dell’anno di cessazione dell’attività lavorativa e dunque, nella specie, in quella ridotta ex lege. In particolare, l’importo della pensione è la somma di una «quota A» − computata in relazione alla retribuzione spettante all’atto di collocamento a riposo (artt. 13, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 503 del 1992 e 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973) − e di una «quota B» − calcolata sulla base delle retribuzioni delle ultime dieci annualità di servizio (artt. 7, comma 2, e 13, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 503 del 1992).

2.− Preliminarmente, deve essere delimitato l’ampio petitum formulato dall’ordinanza di remissione.

Il giudice a quo chiede l’addizione alla disposizione censurata di una norma che consenta, ai fini del calcolo pensionistico, l’esclusione delle retribuzioni ridotte se ulteriori rispetto a quelle necessarie per la maturazione dell’anzianità contributiva o, in alternativa, di una norma che stabilisca un “qualsivoglia” meccanismo di tutela del trattamento pensionistico dei docenti in parola.

La rilevata ambiguità della domanda non rende, tuttavia, inammissibili le questioni sollevate poiché superabile in via interpretativa (tra le tante, sentenze n. 152, n. 75 e n. 58 del 2020).

Infatti, il riferimento in più passaggi motivazionali dell’ordinanza di rimessione al principio di neutralizzazione, con richiamo ai precedenti di questa Corte che tale principio hanno affermato, induce a circoscrivere l’intervento additivo richiesto alla sola prima parte della domanda formulata.

3.− Sempre in via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, spiegate, sotto diversi profili, dal Presidente del Consiglio dei ministri e dall’INPS.

3.1.− Secondo l’interveniente l’irrilevanza deriverebbe dal fatto che la disposizione censurata si limita a disciplinare lo status giuridico ed economico dei docenti provenienti dalla SSEF senza nulla disporre sul calcolo del loro trattamento pensionistico, piuttosto regolato dalle norme previdenziali dettate in via generale per i dipendenti pubblici.

L’eccezione non è fondata.

Vero è che il censurato art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, si limita a introdurre un deteriore trattamento stipendiale e che, ai fini della soluzione del giudizio pensionistico, è necessario applicare tale norma retributiva in uno con quelle previdenziali che disciplinano il calcolo della pensione per i lavoratori statali. Tuttavia, la mancata espressa inclusione nel petitum di disposizioni anch’esse applicabili non si risolve in un vizio dell’ordinanza di rimessione, in quanto la sua motivazione consente a questa Corte di individuare il contesto normativo effettivamente investito dalle censure formulate (tra le tante, sentenze n. 142 e n. 12 del 2023; n. 224 del 2020 e n. 14 del 2019).

Il giudice a quo espone, infatti, che il trattamento pensionistico deteriore spettante al docente è effetto della congiunta applicazione della previsione retributiva e di quelle previdenziali applicabili alla fattispecie (artt. 7, comma 2, 13, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 503 del 1992, e 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973).

3.2.− Anche l’eccezione di difetto di rilevanza sollevata dall’INPS è priva di fondamento.

Secondo l’istituto previdenziale la falcidia pensionistica subita dal professore non dipenderebbe dalla norma censurata, ma dalla circostanza fattuale che l’amministrazione datrice di lavoro non aveva acconsentito al prepensionamento nel 2015 e, dunque, nell’annualità con retribuzione piena.

Al riguardo, è agevole osservare che è proprio dall’applicazione della disciplina denunciata che deriva la contestata riduzione della prestazione: le norme previdenziali censurate impongono l’individuazione della retribuzione pensionabile in relazione allo stipendio dell’anno di cessazione dal servizio − nella specie ridotto dalla contestata norma retributiva − a prescindere dalle ragioni fattuali per cui l’attività lavorativa sia cessata a quella data.

4.− Le questioni sollevate sono, tuttavia, inammissibili per altri profili.

L’ordinanza di rimessione presenta, infatti, una insufficiente motivazione tanto sulla rilevanza, in ragione della lacunosa ricostruzione della fattispecie e del quadro normativo in cui questa si inserisce, quanto sulla non manifesta infondatezza, per mancata illustrazione delle ragioni di contrasto con i parametri evocati.

5.− Per comprendere l’inadeguatezza della ricostruzione offerta dal giudice a quo, è necessario un breve inquadramento degli istituti previdenziali su cui è fondata la pretesa del ricorrente nel giudizio principale e, dunque, del principio di neutralizzazione e del prepensionamento del personale dell’amministrazione in soprannumero, limitatamente agli aspetti interessati dalle questioni.

5.1.− Questa Corte più volte, in relazione a specifiche fattispecie previdenziali soggette al sistema retributivo, ha affermato il principio di neutralizzazione, a mente del quale la contribuzione successiva alla maturazione del diritto alla pensione può incrementarne la misura e non ridurre quella già maturata, con la conseguenza che l’eventuale “contribuzione aggiuntiva dannosa” (sia essa obbligatoria, volontaria o figurativa) va esclusa dal calcolo della pensione (ex plurimis sentenze n. 224 del 2022, n. 173 del 2018 e n. 82 del 2017).

La regola della immodificabilità in peius della prestazione pensionistica oramai acquisita è, in particolare, correzione della rigida applicazione del calcolo pensionistico con il sistema retributivo in virtù dei princìpi di ragionevolezza, di proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità del lavoro prestato durante il servizio attivo (art. 36 Cost.), e di adeguatezza del trattamento pensionistico (art. 38, secondo comma, Cost.).

Il legislatore ogniqualvolta individui la retribuzione pensionabile sulla base delle ultime retribuzioni, lo fa per favorire il lavoratore, presumendo che nell’ultimo periodo di vita lavorativa questi raggiunga livelli retributivi maggiori, sicché è irragionevole che, per effetto di un intervenuto decremento retributivo, quel meccanismo di calcolo porti ad un risultato antitetico al suo fine, ossia alla riduzione della pensione potenzialmente già maturata (in particolare, sentenze n. 82 del 2017 e n. 264 del 1994). Infatti, «a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo [non può] corrispond[ere] una riduzione della pensione» acquisita per effetto della precedente contribuzione (ancora sentenza n. 264 del 1994).

La regola della neutralizzazione, pur riconosciuta con più pronunce e secondo una ratio decidendi unitaria, non si presta però ad essere considerata principio valido per tutti i diversi regimi previdenziali, in ragione delle peculiarità proprie delle diversificate discipline, e richiede piuttosto un intervento puntuale di questa Corte sulla normativa applicabile, con valutazioni calibrate sulla specificità delle molteplici situazioni coinvolte (sentenze n. 224 del 2022 e n. 82 del 2017).

5.2.– A dire del rimettente, la neutralizzazione sarebbe nella specie applicabile in virtù della maturazione del diritto alla pensione secondo quanto previsto dall’art. 2, comma 11, lettera a), del d.l. n. 95 del 2012, come convertito.

Tale disposizione ha consentito il prepensionamento dei dipendenti pubblici risultanti in soprannumero per effetto di riduzioni delle dotazioni organiche nelle amministrazioni statali disposte secondo lo stesso decreto (art. 2, comma 1) o − anche per le amministrazioni diverse da quelle statali − di riduzioni derivanti da ragioni funzionali o finanziarie (comma 14 dello stesso art. 2); ne consegue che il pensionamento anticipato è una delle misure di riassorbimento degli esuberi derivanti da interventi organizzativi disposti per il contenimento della spesa pubblica.

In particolare, il prepensionamento è previsto per quei «lavoratori che risultino in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi i quali, ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico in base alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore dell’articolo 24 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, avrebbero comportato la decorrenza del trattamento medesimo entro il 31 dicembre 2016, dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva nonché del regime delle decorrenze previsti dalla predetta disciplina pensionistica».

Secondo quanto chiarito da una successiva norma di interpretazione autentica, «l’amministrazione, nei limiti del soprannumero, procede alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti indicati nella disposizione» (art. 2, comma 6, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni», convertito, con modificazioni, nella legge 30 ottobre 2013, n. 125).

La disciplina ha consentito, dunque, una speciale ipotesi di fuoriuscita dei dipendenti dall’amministrazione tramite l’ultrattività (fino al 31 dicembre 2016) delle disposizioni relative ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico previgenti rispetto alla riforma del sistema previdenziale prevista dall’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito: ai soprannumerari, che dal 1° gennaio 2012, secondo le più rigide regole della “legge Fornero”, non avevano diritto alla pensione, è stato eccezionalmente consentito il pensionamento secondo le più favorevoli norme previgenti, ove, tra l’altro, avessero maturato, entro il 2016, i relativi requisiti.

Appare evidente che il legislatore ha introdotto il prepensionamento come ipotesi in deroga alla riforma generale sulle pensioni, così conferendo carattere eccezionale all’istituto, con la conseguenza che la relativa disciplina necessita di stretta interpretazione.

Ebbene, alla luce delle predette disposizioni, il collocamento in quiescenza del dipendente è subordinato, anzitutto, al ricorrere di alcune condizioni soggettive costituite: a) dalla sua individuazione dalla pubblica amministrazione come unità in soprannumero; b) dal possesso, al 31 dicembre 2016, dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva per come stabiliti nella disciplina previdenziale anteriore al d.l. n. 201 del 2011, come convertito; c) dal raggiungimento alla stessa data del termine di conseguibilità del trattamento pensionistico (cosiddetta decorrenza o finestra mobile).

Tali requisiti non sono però sufficienti a perfezionare la fattispecie pensionistica, piuttosto congegnata come fattispecie a formazione progressiva: il legislatore, ove rimetta all’amministrazione la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro condizionandola ai «limiti del soprannumero», subordina il prepensionamento del singolo dipendente all’ulteriore verifica che esso serva effettivamente ad eliminare l’eccedenza di personale, tenuto conto delle ulteriori misure di riassorbimento già adottate.

Ne consegue che, al riscontro dei requisiti di anzianità e decorrenza in capo al lavoratore soprannumerario da parte dell’ente di previdenza, può comunque non seguire la risoluzione del rapporto di lavoro da parte dell’amministrazione datrice di lavoro. Per come chiarito dalle circolari del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 4 del 28 aprile 2014 e n. 3 del 29 luglio 2013, può, infatti, accadere che l’esubero sia già risolto con un numero sufficiente di pensionamenti ordinari, rispetto a cui quello in deroga ha valore solo sussidiario, o che vi sia un numero di dipendenti muniti dei requisiti per l’accesso all’eccezionale pensionamento anticipato che oltrepassa il contingente in soprannumero. Così, nello specifico caso in cui pervengano plurime domande di prepensionamento eccedenti il rilevato esubero, l’amministrazione dovrà procedere ad un parziale accoglimento delle richieste secondo predefiniti criteri di priorità.

In conclusione, il legislatore non configura il pensionamento “in deroga” come un diritto soggettivo “puro” del dipendente pubblico, delineato compiutamente nella previsione normativa, bensì come diritto condizionato alla determinazione organizzativa dell’amministrazione. Il dipendente potrà avere diritto alla quiescenza solo se egli rientra, nel concreto, tra le unità che la pubblica amministrazione ha necessità di riassorbire.

6.– Alla luce del descritto inquadramento, va anzitutto effettuato il controllo esterno sulla rilevanza demandato a questa Corte.

Secondo il rimettente nel giudizio al suo esame sarebbe applicabile il principio di neutralizzazione in quanto, in epoca antecedente alla riduzione retributiva determinata dalle norme censurate, il docente avrebbe già maturato il diritto al trattamento di quiescenza ai sensi dell’art. 2, comma 11, lettera a), del d.l. n. 95 del 2012, come convertito.

6.1.– In punto di ricostruzione della specifica fattispecie pensionistica, si comprende dal provvedimento di liquidazione della pensione appositamente prodotto dall’INPS nel giudizio costituzionale e dalle difese dello stesso Istituto che la pensione concretamente liquidata è quella anticipata, i cui requisiti (all’epoca, anagrafico pari a 63 anni e contributivo pari a 42 anni e 10 mesi) risultano maturati per il docente solo il 31 dicembre 2016: per tale riconosciuto trattamento l’annualità retributiva sfavorevole (2016) concorre ad integrare la necessaria anzianità contributiva e come tale è, pacificamente, non neutralizzabile.

Diversamente, la domanda del ricorrente e il ragionamento posto dal rimettente alla base della proposizione della questione di legittimità costituzionale si fondano sulla maturazione del diritto al diverso trattamento della pensione di anzianità alla data antecedente del 31 dicembre 2015 (40 anni di contribuzione), in applicazione della speciale disciplina di cui al d.l. n. 95 del 2012, come convertito, sul personale soprannumerario. In tale prospettiva, l’annualità contributiva dannosa del 2016 oltrepasserebbe la già maturata anzianità contributiva e, come tale, ad avviso del rimettente, meriterebbe di essere neutralizzata per effetto dell’auspicato intervento di questa Corte.

Il passaggio “chiave” dell’acquisizione di tale diverso titolo pensionistico non è, però, adeguatamente illustrato dal rimettente, il quale ritiene in proposito sufficiente l’accertamento del diritto al prepensionamento compiuto da parte della sentenza del TAR Lazio n. 301 del 2017 sulla base del riscontro della condizione di soprannumerarietà e della maturazione del requisito dell’anzianità contributiva al 31 dicembre 2015.

Alla luce della descritta disciplina del prepensionamento, però, il giudice a quo avrebbe dovuto procedere a verificare la sussistenza degli ulteriori elementi necessari a integrare la fattispecie complessa del prepensionamento e non risultanti dalla citata sentenza del TAR Lazio (peraltro riformata dal Consiglio di Stato sulla base della negazione della qualifica del professore come soprannumerario).

In particolare, il giudice delle pensioni avrebbe dovuto accertare il momento della maturazione della decorrenza al trattamento pensionistico e, soprattutto, l’intervenuta valutazione da parte dell’amministrazione della concreta strumentalità del prepensionamento a risolvere l’esubero, anche in ragione delle posizioni di eventuali altri soprannumerari.

La rilevata carente descrizione della fattispecie del giudizio principale determina l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per difetto di motivazione sulla rilevanza (da ultimo, sentenze n. 249, n. 196, n. 33 e n. 28 del 2022).

7.– Le questioni sono inammissibili, anche per carente motivazione sulla non manifesta infondatezza.

7.1.– L’ordinanza in esame prospetta cumulativamente la lesione degli evocati parametri senza illustrare le ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe la loro violazione. Da qui consegue, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’inammissibilità delle questioni (tra le tante, sentenze n. 185 e n. 32 del 2023, n. 182 del 2022 e n. 252 del 2021).

Alla mera elencazione dei parametri costituzionali che si assumono violati il rimettente accompagna la dimostrazione dell’effetto negativo della riduzione stipendiale sul trattamento pensionistico secondo i criteri di calcolo propri del sistema retributivo, ma non spiega perché ciò costituisca violazione dei singoli parametri.

7.2.– Anche a voler ritenere il contrasto dei parametri argomentato sulla base dei precedenti di questa Corte sul principio di neutralizzazione (di cui però l’ordinanza riporta gli estremi, ma non le ragioni per cui la mancata previsione del principio contrasterebbe con la Costituzione), il giudice a quo non si preoccupa di prospettare la compatibilità di quella regola con lo specifico sistema previdenziale dei dipendenti dello Stato, cui fanno capo i docenti ex SSEF.

7.2.1.– E proprio in relazione alla specifica posizione di tali docenti la motivazione dell’ordinanza di rimessione risulta carente.

Il giudice a quo rammenta che il censurato art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, è già stato oggetto di esame da parte di questa Corte, che, con sentenza n. 241 del 2019, ha dichiarato, tra l’altro, non fondate le questioni relative alla disposta riduzione stipendiale e inammissibili le questioni sul conseguente pregiudizio previdenziale.

In proposito, il rimettente si preoccupa di specificare che la pronuncia in rito consente la riproposizione delle questioni pensionistiche, ma non si confronta con le argomentazioni del precedente specifico, che ha ritenuto la riforma retributiva esente dai denunciati vizi di illegittimità costituzionale.

Con la pronuncia del 2019 – che contiene l’analitica ricostruzione della evoluzione della disciplina dei docenti della SSEF – questa Corte ha, in particolare, escluso tanto l’irragionevolezza della scelta legislativa della riduzione della pregressa retribuzione loro spettante, poiché tesa a realizzare una omogeneità di trattamento interna al personale docente della SNA, in cui essi sono stati trasferiti, quanto la lesione del principio di affidamento, avendo il legislatore contemperato il sacrificato interesse dei docenti in parola tramite il riconoscimento del trattamento economico del livello più alto possibile, quello dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno.

Posto, allora, che la riduzione retributiva determina, in virtù delle regole previdenziali applicabili alla generalità dei dipendenti dello Stato, la falcidia pensionistica, il rimettente avrebbe dovuto argomentare la ragione per cui dalla legittimità del presupposto non dovrebbe dedursi, nella specie, la legittimità della conseguenza.

8.− In conclusione, le sollevate questioni di legittimità costituzionale vanno dichiarate inammissibili per inadeguata motivazione tanto sulla rilevanza quanto sulla non manifesta infondatezza.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 settembre 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 ottobre 2023